«Ti voglio benedire ogni giorno, lodare il tuo nome in eterno e per sempre» (Sal 145)

E chi non segue la Chiesa sul matrimonio?

Cfr. papa Francesco, Esortazione Amoris Laetitia, 2016 (citato con AL).

Cfr. Vescovo Oscar, Nota pastorale sul capitolo VIII di Amoris Letizia, e sua presentazione, 2018.

Cfr. Mons. Sergio Nicolli, Una Chiesa che accoglie le Famiglie in situazione difficile, 2006Cfr. CEI, Direttorio di Pastorale Familiare, 1993.

Alcune premesse

Capita continuamente di ascoltare la fatica dei nonni verso le situazioni familiari di figli e nipoti. O di percepire il disorientamento dei genitori circa la scelta dei padrini per i sacramenti del battesimo e della cresima. Speriamo con queste pagine di portare un po’ di chiarezza e soprattutto speranza, sapendo che il tema è complesso e rimandando ai necessari approfondimenti. 

La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa. Malgrado i numerosi segni di crisi del matrimonio, «il desiderio di famiglia resta vivo, in specie fra i giovani, e motiva la Chiesa». Come risposta a questa aspirazione «l’annuncio cristiano che riguarda la famiglia è davvero una buona notizia». (AL n.1) 

L’ambito delle relazioni familiari appare, nel nostro contesto sociale e culturale, sempre più afflitto da crisi, instabilità, difficoltà di varia natura che danno origine a situazioni diverse, e anche di grande confusione tra i fedeli. (AL Cap 2).

Le separazioni e i divorzi in Italia sono in continua crescita, sia tra chi è sposato civilmente sia tra i matrimoni religiosi. Il diffondersi delle “unioni di fatto”, cioè della convivenza al di fuori del matrimonio. Oggi è facile confondere la genuina libertà con l’idea che ognuno giudica come gli pare, come se al di là degli individui non ci fossero verità, valori, principi che ci orientino, come se tutto fosse uguale. (AL n.34)  

Va fatta comunque una distinzione tra le varie situazioni di convivenza (ideologiche, obbligate, transitorie…). 

Molte famiglie vivono oggi, anche se la crisi non è ancora conclamata ed evidente, in una situazione di grave difficoltà di relazione che fa temere che il matrimonio non potrà durare molto; purtroppo non esiste ancora nella Chiesa una mentalità che vede nella crisi di coppia una situazione pastorale di cui è indispensabile occuparsi. Si ritiene generalmente che quando una coppia entra in crisi, questo sia un problema che riguarda il privato, gli specialisti o i Consultori, e comunque non la comunità.

Il diffondersi delle situazioni familiari ferite o non in sintonia con il messaggio evangelico – soprattutto della convivenza al di fuori del matrimonio e di un nuovo matrimonio dopo il fallimento del primo – produce, anche negli ambienti cristiani, una sorta di assuefazione al fenomeno, che tende a farlo accettare come una evoluzione sociale ineluttabile e che può indurre a rassegnarsi, ad annacquare il progetto cristiano sul matrimonio e sulla famiglia, e nei giovanissimi di oggi nemmeno a far  venire il dubbio di cosa sia sposarsi secondo la proposta cristiana e di come sia bello e desiderabile!

Il vangelo e il magistero ci chiedono invece di puntare in alto: gli sposi sono anche oggi chiamati alla gioia e alla santità, e questa è possibile e accessibile a tutti. È necessario, d’altra parte, incontrare le persone lì dove si trovano, in quel punto del loro cammino, e accompagnarle in un cammino che liberi tutto il potenziale che c’è in esse, superando anche le situazioni di incoerenza, di disagio o di sbandamento.  Urge affrontare in modo serio le tematiche della sessualità come semplice consumo, della paura dei giovani rispetto al “per sempre” del matrimonio cristiano, del fenomeno delle crisi di coppia e delle situazioni di caduta del progetto matrimoniale (separati, divorziati, in nuova unione).

«Lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo (cfr Gv 1,9; Gaudium et spes, 22) ispira la cura pastorale della Chiesa verso i fedeli che semplicemente convivono o che hanno contratto matrimonio soltanto civile o sono divorziati risposati. Nella prospettiva della pedagogia divina, la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi al servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. […] Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico – ed è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove – può essere vista come un’occasione da accompagnare verso il sacramento del matrimonio, laddove questo sia possibile». (AL n.78)

Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione». (AL n.79)

“Famiglia, credi in ciò che sei!”. Dicendo questo, già Papa Giovanni Paolo II, intendeva orientare anche l’attenzione della comunità cristiana sulla famiglia: Chiesa, credi in ciò che è la famiglia, sacerdoti, credete nel dono che la famiglia rappresenta per la Chiesa! Questa convinzione Giovanni Paolo II l’aveva espressa anche nella Lettera alle famiglie, quando aveva definito la famiglia “la via della Chiesa”: “Tra queste numerose strade, la famiglia è la prima e la più importante: una via comune, pur rimanendo particolare, unica ed irripetibile, come irripetibile è ogni uomo; una via dalla quale l’essere umano non può distaccarsi”.

“Famiglie continuiamo a camminare”: diceva papa Francesco, nell’Amore che ci ha insegnato Gesù.  (AL Cap. 4)

Perché la famiglia merita questo atto di fede? Non certo perché è perfetta, ma perché c’è un mistero grande che essa racchiude, un mistero che rinvia al mistero stesso di Dio Trinità. 

Don Tonino Bello esprime con linguaggio di grande intensità umana e spirituale questa realtà della famiglia come “buona notizia” e come risorsa nella Chiesa di oggi: “La famiglia è stata pensata da Dio come immagine della Trinità… Non una immagine neutra da incorniciare o da chiudere in un album, ma come immagine che provoca gli uomini alla comunione, alla pace, alla convivialità delle differenze… La famiglia, agenzia periferica della SS. Trinità: laboratorio che produce le stesse logiche e vive le stesse esperienze di comunione… La famiglia, icona della Trinità, deve divenire il luogo dove si sperimentano le relazioni, e quindi si recuperano i significati”.

Così afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Due altri Sacramenti l’Ordine e il Matrimonio sono ordinati alla salvezza altrui; se contribuiscono alla salvezza personale questo avviene attraverso il servizio agli altri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa, servono all’edificazione del popolo di Dio”. Dunque il sacramento del Matrimonio, come quello dell’Ordine, sono ambedue necessari per costruire la Chiesa in modo armonico ed efficace, perché la Chiesa sia in grado di compiere la sua missione.

Nel nuovo Rito del Matrimonio, adattato per la Chiesa italiana ed entrato in vigore nel 2004, la comunità sia ritenuta una presenza indispensabile e il sacramento venga presentato come un dono non soltanto per gli sposi ma per la comunità: appunto come un sacramento che edifica la Chiesa. Noi purtroppo continuiamo a celebrarlo come affare privato, semmai qualcuno della comunità viene a vedere come è vestita la sposa… 

Ma perché l’attenzione alla famiglia non diventi una ideologia, un mitizzare l’idea ignorando la realtà, è indispensabile che la fede nella famiglia sia concretizzata nella stima e nella fiducia rivolta ad ogni famiglia concreta. Il definire come risorsa la famiglia vale soltanto per le famiglie “riuscite”. Ricordando che non esistono nè persone nè famiglie in-vulnerabili, mentre possiamo ringraziare Dio che ancora molte felicemente camminano: “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”!? No, non sono le famiglie perfette (se mai ne esistono), o soltanto le “migliori”, ad esprimere il mistero dell’amore di Cristo per la Chiesa sua sposa: sono tutte le famiglie che nascono dal Sacramento e sono loro stesso un Sacramento vivente. E la chiesa vede il bene (semi del Verbo) anche nelle famiglie di tante altre situazioni religiose e umane. (AL n.77)  

Possiamo “credere nella famiglia” perché ogni storia di vero amore è una storia abitata da Dio, una “storia sacra”: Dio si è compromesso con gli sposi nel sacramento e, dal momento che egli è un Dio fedele, non li abbandona più, nemmeno quando la loro vicenda diventa difficile o si impoverisce, nemmeno quando incontra il fallimento umano di un progetto. La povertà e gli errori umani non sono mai così gravi da essere irreparabili perché l’amore di Dio è capace di trasformare persino la valle di Acor – dice la Scrittura,  che è la valle della maledizione – in “porta di speranza”. Ecco perché, mentre rilanciamo la proposta impossibile (senza la Grazia di Dio) del vangelo del matrimonio, ribadiamo che è sempre importante non giudicare, perché nessuno può sapere quello che si muove nel cuore delle coppie.  I momenti di crisi e di fragilità inoltre fanno parte della nostra umanità, devono saperlo le coppie e anche le comunità! Abbracciare la croce è la via del cristiano, non solo è sofferenza ma è soprattutto svelamento dell’amore di Dio!

Accostarsi alle situazioni di crisi o di fallimento “in punta di piedi”

Quando una persona confida la sua situazione di difficoltà nelle relazioni familiari, o la scelta differente dalla proposta cristiana, non è possibile avere dopo le prime battute la presunzione di aver capito di cosa si tratta e di avere subito le parole adatte alla situazione o addirittura la risposta preconfezionata. Chi vive una situazione di dubbio o di difficoltà matrimoniale ha diritto di vedere nel cristiano, nel prete o nell’operatore di pastorale familiare, prima di tutto non il difensore di un ordine morale costituito ma un padre o un fratello che cerca di capire la situazione e perciò si sforza di leggere dall’interno il problema perché desidera il vero bene della persona.

Pur essendo chiari gli orientamenti della Chiesa, il problema rimane complesso, perché ha molti aspetti soggettivi e riguarda storie che, pur simili negli effetti, hanno percorsi e sfumature notevolmente differenziate. 

È necessario pertanto accostarsi a tutte le situazioni, specie di sofferenza coniugale o familiare “in punta di piedi”: con una grande disponibilità ad ascoltare, con il desiderio di capire e di aiutare a capire, con l’atteggiamento della comprensione e della solidarietà e, se c’è lo spazio, per raccontare in modo più evangelico possibile la via di Gesù! Può svolgere un vero servizio nei confronti di queste persone soltanto chi è disposto a prendere su di sé una parte del peso, della fatica e della sofferenza che c’è in ognuna di queste situazioni. L’invito per tutti è a cercare, ad approfondire, a capire, a dialogare con chi è più esperto. 

Ogni situazione non va presa genericamente come “un caso” ma va letta come “la storia di una persona”. Nessuno può essere dispensato dalla fatica del discernimento, dalla responsabilità verso la verità del Vangelo e verso le singole persone. Tutto questo si traduce in un invito ad entrare in questa tematica con il senso della complessità e del rispetto per ogni storia personale. 

È necessario credere nei miracoli dell’amore di Dio e nella capacità, che anche l’amore umano ha in se stesso, di rigenerarsi: Dio non si lascia facilmente sconfiggere dai fallimenti umani, è capace di scrivere diritto anche sulle nostre righe storte.

Diviene importante tener presente questo, sia quando si ha a che fare con storie difficili, attraversate dalla sofferenza, dall’infedeltà e dal fallimento, sia quando ci si trova di fronte a storie spezzate, di fronte alle quali sembra soltanto di dover raccogliere dei cocci. Il disegno di Dio continua in ogni persona: solo Lui conosce nel profondo l’animo umano ed è capace di mantenere viva una storia di salvezza anche con delle persone che sono in una situazione apparentemente in contrasto con la proposta cristiana. Questa convinzione obbliga ad “astenerci dal giudicare l’intimo delle coscienze, dove solo Dio vede e giudica”, anche nei confronti delle persone che non possono essere ammesse ai sacramenti. (AL Cap 6)

Il dono di sé, l’atto unitivo, l’atto procreativo e il sacramento sono connessi!

La nativa e fondamentale vocazione dell’uomo all’amore coinvolge la persona nella sua interezza, secondo la sua realtà di spirito incarnato: ogni uomo e ogni donna è, quindi, chiamato a vivere l’amore come totalità unificata di spirito e di corpo, sentimenti e volontà, di cui la sessualità è parte integrante. Essa, che è una ricchezza di tutta la persona, «oltre a determinare l’identità personale di ciascuno, rivela come ogni donna e ogni uomo, nella loro diversità e complementarietà, siano fatti per la comunione e la donazione. La sessualità, infatti, dice come la persona umana sia intrinsecamente caratterizzata dall’apertura all’altro e solo nel rapporto e nella comunione con l’altro trovi la verità di se stessa. Così, la sessualità – che pure è minacciata dall’egoismo e può essere falsificata e ridotta attraverso il ripiegamento di ciascuno su di sé – richiede, per sua stessa natura, di essere orientata, elevata, integrata e vissuta nel dinamismo di donazione disinteressata, tipico dell’amore». 

Il vertice e il compimento dell’amore, di cui ci rende capaci Gesù, è dare la vita, donare gratuitamente, totalmente, e reciprocamente, non chiusi tra due, ma verso un terzo, o altri.
Questo è possibile però solo con la grazia di Dio, perché Gesù ci ha amato prima e ci permette, se lo vogliamo, di seguirlo su questa via: “Amatevi sic-come io vi ho amato”!

Il segno e il gesto più alto e più forte che esprime questa unione, dal punto di vista sessuale, è il rapporto completo, dove i due esprimono il dono della persona attraverso il linguaggio del corpo. Questo gesto comporta una responsabilità: anzitutto non mentire, essere pronti a dare tutto se stessi, essere responsabili della possibilità di dare alla luce una nuova vita. Amando così si gode una gioia più grande e, diciamo con la testimonianza di tante coppie, in tutte le dimensioni della vita di coppia (dalle pulizie di casa, al “fare l’amore”, all’accudire un figlio). Un uomo e una donna che desiderano unirsi fino a dare la vita, sono quindi chiamati dalla Chiesa, ad aspettare, per  unirsi quando si è capaci di assumersi la responsabilità di donarsi davvero e di accogliere la vita. Questo, per chi ci crede, è possibile solo con l’aiuto di Dio: nel Sacramento. Altrimenti dici con lo stesso gesto sessuale che ti dai, ma solo un po’, oppure che rifiuti la possibilità inscritta nell’atto d’amore di avere un figlio, oppure che l’aiuto di Dio non serve (il sacramento), ma basta solo il tuo sforzo. (cfr AL Cap. 5)

In questa prospettiva, la risposta alla vocazione all’amore iscritta nel cuore di ogni uomo esige un costante impegno educativo. Tale impegno è finalizzato a promuovere la maturità globale della persona la quale, accettando il valore della sessualità e integrandolo nell’insieme di tutti i valori del suo essere, è condotta a sviluppare sempre più la sua potenzialità oblativa così da aprirsi all’amore per l’altro fino al dono totale di sé.

Per la Chiesa la sessualità è quindi una realtà buona e grande, ma non scollegata dalle altre dimensioni. Siamo chiamati nel nostro contesto culturale, tuttavia, a chiederci come stiamo trasmettendo il significato della sessualità alle giovani generazioni (AL Cap 7). Ci proviamo con i pochi adolescenti che raggiungiamo, ma la pubblicità di una sessualità sganciata dall’amore e vissuta solo come consumo di emozioni è forte, e frantuma la persona in se stessa. 

Lo spirito della indissolubilità del matrimonio cristiano

Cosa comporta la fedeltà alla “verità”? La fedeltà alla verità domanda di proporre “con chiarezza e fermezza i contenuti e i principi intangibili del messaggio cristiano” riguardo al matrimonio e alla famiglia: “Consapevole che l’indis­so­lubilità del matrimonio non è un bene di cui possa disporre a suo piacimento, ma è un dono e una grazia che essa ha ricevuto dall’alto per custodirlo e amministrarlo, la Chiesa, oggi come ieri, riafferma con forza che non è lecito all’uomo dividere ciò che Dio ha unito”. Così dice Gesù nel vangelo di Matteo (Mt 19,3-12), e san Paolo (Ef 5,32) approfondisce mostrando l’amore tra gli sposi come riflesso del dono totale di Gesù sulla croce: è un per sempre, nel nome del Padre.

Ma l’indissolubilità oggi è comprensibile pienamente solo alla luce della fede e di una interpretazione sacramentale della propria vicenda di amore. Diventare segno sacramentale dell’amore di Dio significa accettare la logica dell’amore fedele e irreversibile di Dio, che non si ferma nemmeno di fronte all’in­fedeltà dell’uomo: “Dio rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”. È questa la caratteristica fondamentale e irrinunciabile dell’amore di Dio, che lo differenzia dall’amore umano: anche quando, dopo aver conosciuto l’amore di Dio, ci si allontana da lui, lo si abbandona per cercare altrove la realizzazione della propria felicità, Dio non volta le spalle ma rimane fedele, continua a voler bene: la sua fedeltà è la roccia sulla quale è possibile in qualunque momento ricostruire, con la conversione, l’amore che si era perduto, è quello che ha mostrato Gesù abbandonato sulla croce. 

Sposarsi “in Cristo e nella Chiesa” non significa semplicemente scambiarsi davanti a Dio una promessa umana di amore per chiedere il suo aiuto e la sua protezione; significa lasciarsi insieme avvolgere dall’amore e dalla fedeltà di Dio fino al punto da impegnarsi a vivere l’amore – con l’aiuto della Grazia perché non è possibile con le sole risorse umane – con la logica della fedeltà di Dio, fino alla fine. Ed è proprio questo che rende quella relazione di amore, vissuto “in Cristo e nella Chiesa”, un segno sacramentale, cioè espressione e manifestazione, dell’amore con cui Dio ama l’umanità e Cristo ama la Chiesa anche quando essa diventa una sposa infedele. Così quando uno vede questi sposi, con tutte le loro fragilità, anche se non lo sanno, stanno portando la Sua immagine in giro per il mondo.

Il matrimonio cristiano comporta perciò l’impegno a rimanere fedeli anche di fronte all’infedeltà.

A questo punto è necessario chiedersi: quante persone che si sposano in chiesa sono consapevoli di questo impegno e hanno capito lo spirito della indissolubilità? Spesso infatti c’è soltanto la conoscenza della “legge” dell’indissolubilità, accettata come legge della Chiesa, senza comprenderne la motivazione e quindi in fondo mal tollerata. Una verifica? Basterebbe chiedere a due cristiani qualunque che si sposano: “se un giorno tua moglie (o tuo marito) ti abbandonasse in maniera irreversibile per un’altra persona, ti impegneresti fin d’ora a restare solo per il resto della tua vita?”. Sicuramente molti direbbero che no: lo considerano un diritto rifarsi una vita! Questi hanno capito benissimo che c’è una legge dell’indissolubilità del matrimonio nella Chiesa: anche il divieto di fare la comunione nel caso che un divorziato si risposi, è avvertito semplicemente come legge della Chiesa. Sarà difficile far capire a costoro lo spirito della indissolubilità: una chiamata alla fedeltà assoluta a imitazione di quella di Dio per ogni uomo! È questione di qualità della fede! È questione di affidare a Gesù la propria vita e la propria unione, e possibilmente di farlo in due. Tutto questo impegna naturalmente a una catechesi più esplicita e più motivante verso chi si prepara a celebrare il matrimonio cristiano. Ma forse pone qualche interrogativo anche a riguardo della validità di tanti matrimoni: una accettazione della dimensione “religiosa” del matrimonio senza una conoscenza esplicita del valore sacramentale detto sopra, si può considerare vero sacramento?

Non è in discussione l’appartenenza alla Chiesa

Fa parte della fedeltà alla verità, d’altra parte anche il riconoscere che ogni cristiano in forza del Battesimo – quale che sia il livello della sua fede e la qualità della sua testimonianza cristiana – fa parte della Chiesa, è nella comunione sostanziale di coloro che Dio ha chiamato alla salvezza attraverso la Chiesa. 

Occorre richiamare l’appartenenza alla Chiesa anche dei cristiani che vivono in situazione matrimoniale difficile o cosiddetto “irregolare”: tale appartenenza si fonda sul battesimo con la «novità» che esso introduce e si alimenta con una fede non totalmente rinnegata. È una consapevolezza che deve crescere anche dentro la comunità cristiana: è in tale consapevolezza che la comunità cristiana può e deve prendersi cura di questi suoi membri; è nella stessa consapevolezza che essi possono e devono partecipare alla vita e alla missione della Chiesa, sin dove lo esige e lo consente la loro tipica situazione ecclesiale”.

Quanti vivono in una situazione matrimoniale contraria a questi orientamenti, pur continuando ad appartenere alla Chiesa, non sono in “piena” comunione con essa. Non lo sono perché la loro condizione di vita, scelta e continuata, è in contraddizione con il Vangelo di Gesù, che propone ed esige dai cristiani un matrimonio celebrato nel Signore, indissolubile e fedele. Inoltre spesso non vogliono cambiare strada, e nemmeno approfondire seriamente i motivi di questa distanza. Di conseguenza, la Chiesa non può ammettere alla riconciliazione sacramentale e alla comunione eucaristica, (a essere padrini e madrine) quanti continuassero a permanere in una situazione esistenziale in contraddizione con la fede annunciata e celebrata nei sacramenti, rinunciando al sacramento del matrimonio. Se rinunci alla piena comunione con la Chiesa, rinunciando a un sacramento, è contraddittorio chiedere di poter partecipare ad un altro. 

Tuttavia la strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre  immeritata, incondizionata e gratuita!» 

(AL 296). 

La Chiesa non manca quindi di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio (AL 292).

Essa vuole avvicinarsi, ACCOMPAGNARE, DISCERNERE E INTEGRARE (AL Cap VIII).
Per questo si vuole invitare tutti ad un cammino, che parta dal desiderio di voler seguire Gesù, di essere parte della comunità, anche se in una situazione di vita non in piena comunione.

Alcuni casi 

Conviventi

È in forte aumento il fenomeno delle convivenze, come se si fosse sposati ma al di fuori del matrimonio. Va fatta per quanto possibile una distinzione tra le diverse motivazioni che stanno alla base del rifiuto, temporaneo o definitivo, del matrimonio. Una prima distinzione da tener presente è quella tra chi sceglie la convivenza come forma “stabile” e chi la sceglie come esperienza temporanea in vista del matrimonio, magari per verificare meglio l’entità e la stabilità del legame.

Ci sono coppie che rifiutano il matrimonio, religioso e civile, perché ritengono che la scelta di mettersi insieme sia del tutto privata e personale e quindi vada sottratta a una regolamentazione di tipo comunitario. Dietro questa scelta c’è una visione privatistica e intimistica dell’amore e un rifiuto della sua dimensione comunitaria contraria all’idea che matrimonio e la famiglia sono un bene prezioso e indispensabile alla vita sociale e richiedono di per sè, anche verso i figli, una responsabilità sociale.

Molte altre coppie invece scelgono la convivenza quasi come esperienza intermedia in vista del matrimonio. Anche tra chi chiede di prepararsi al matrimonio con un percorso di formazione, molti sono già conviventi. 

Anzitutto è necessario interrogarsi di fronte a questo fenomeno – che la cultura contemporanea tende a ritenere come una strada “normale” di approccio al matrimonio – per capirne le radici psicologiche e sociali; forse questa prassi rivela tutta la fragilità delle relazioni affettive intraprese oggi, il senso di instabilità, l’incertezza e la precarietà rispetto a un impegno futuro

Anche se la cultura contemporanea tende a legittimare queste convivenze, la Chiesa non può non riaffermare che esse sono in contrasto con il senso profondo dell’amore: esso, oltre a non essere mai sperimentazione e a comportare sempre il dono totale di sé all’altro, di per sè coinvolge sempre gli altri, e richiede un riconoscimento e una legittimazione sociale e, per i cristiani, anche ecclesiale. Di conseguenza il cristiano che vive la condizione della convivenza al di fuori del matrimonio, essendo questa in contrasto con l’amore voluto da Dio, non può accedere alla Riconciliazione e alla Comunione eucaristica senza una conversione che modifica sostanzialmente tale condizione. Alla luce di tante esperienze è anche possibile affermare che un periodo di “prova” non rende affatto più stabile la convivenza matrimoniale. Se il “per sempre” fa paura a una coppia che guarda al matrimonio, questo è indice che va verificata meglio la natura della relazione, la qualità dell’amore e gli elementi del progetto di vita familiare; non basta la sperimentazione di una relazione che, al di fuori di una scelta totale e definitiva, si porta dentro tutta la precarietà e la insicurezza del “proviamoci e poi decideremo”. Del resto, anche quando una convivenza “provvisoria” finisce per la decisione di uno dei due, essa porta con sé lacerazioni e delusioni profonde, simili a quelle della separazione nel matrimonio. 

Anche la questione del costo del matrimonio appare quantomai debole. La scelta di una vita, quella evangelica, che va di per sé controcorrente, dovrebbe portare tutti a una riflessione su un costume degli ultimi anni che, senza sobrietà, snatura il senso dell’amore che si vuole celebrare.   

Sposati solo civilmente

Molti battezzati oggi – e in numero crescente – scelgono di celebrare il loro matrimonio soltanto con il rito civile. Questo avviene generalmente perché queste persone si sentono al di fuori della prospettiva della fede o hanno abbandonato da tempo la pratica religiosa, oppure hanno conservato ancora qualche tenue legame con la Chiesa e il mondo della fede ma ritengono che questo legame non sia sufficiente a giustificare la scelta del matrimonio cristiano: dei presupposti che esso richiede e degli impegni che esso comporta.

È chiaro che una scelta di questo genere va rispettata, qualche volta addirittura incoraggiata, se le circostanze lo esigono, per motivi di coerenza. Non si può far pressione su un battezzato, soltanto perché battezzato, affinché celebri cristianamente un matrimonio religioso che non avrebbe senso senza il contesto della fede; l’essere stati battezzati è una condizione indispensabile alla identità cristiana e all’appartenenza alla Chiesa, ma non è una condizione sufficiente; si auspica che l’adulto che chiede i sacramenti si impegni a un cammino di maturazione della propria fede oltre che a un inserimento responsabile nel corpo ecclesiale.

Il battezzato che fa la scelta del solo matrimonio civile si pone automaticamente nella condizione di non poter accedere al sacramento della Riconciliazione e alla Comunione Eucaristica, come pure di non poter svolgere nella Chiesa quei servizi che richiedono una pienezza di testimonianza cristiana.  La Chiesa comunque sa leggere il bene del legame di affetto di cura presenti in questo stato di vita. A volte infatti si tratta di una situazione ambigua nella quale la prospettiva della fede e dell’impegno cristiano non è stata definitivamente esclusa. Un atteggiamento di comprensione, di benevolenza e di amicizia mantiene aperta la strada a ulteriori sviluppi del cammino di fede che potrà, non di rado, giungere – dopo un adeguato cammino – anche alla celebrazione cristiana del matrimonio. 

Può capitare che in questi contesti di convivenza e matrimonio civile, i partner abbiano posizioni e atteggiamenti differenti verso il sacramento del matrimonio. In questo caso, nel dialogo di coppia, sarebbe necessario approfondire. Permettere a ciascuno di esprimere la propria ricerca di fede, di partecipazione o meno alla comunità e a un cammino di fede, potrebbe portare a celebrare il matrimonio rispettando la posizione di entrambi, con il rito adatto previsto dalla liturgia. Anche la preparazione e la partecipazione al percorso verso il matrimonio potrà essere personalizzata.

Separati

I separati sono sempre persone che, avendo attraversato un periodo di intensa sofferenza e spesso portandosi dietro conseguenze di onerose responsabilità, hanno bisogno di attenzione, di affetto, di solidarietà e di aiuto.

“La loro situazione di vita non li preclude dall’ammissione ai sacramenti: a modo suo, infatti, la condizione di separati è ancora proclamazione del valore dell’indissolubilità matrimoniale. Ovviamente, proprio la loro partecipazione ai sacramenti li impegna anche ad essere sinceramente pronti al perdono e disponibili a interrogarsi sulla opportunità o meno di riprendere la vita coniugale”.  Non è raro trovare persone, laici e anche preti, convinti che i separati siano esclusi dai sacramenti, evidenziando una intransigenza immotivata e ingiusta. Esistono anzi molte persone separate che, avendo subìto la separazione, continuano a dare una testimonianza eroica di fedeltà al sacramento: ad alcune di queste persone potrebbe esser proposto di esercitare, insieme con qualche coppia, il ministero della preparazione dei fidanzati al matrimonio! L’esperienza del fallimento e della sofferenza talvolta li rende idonei ad essere nella Chiesa una grande risorsa che va valorizzata e che può ridare pienezza alla loro vita. Perché questo avvenga, i separati che intendono restare fedeli anche quando non c’è più speranza di un rifiorire della vita familiare, hanno bisogno di un forte sostegno e di un accompagnamento spirituale, che spesso chiedono esplicitamente.

Divorziati non risposati

Quando non si riesce a ritrovare l’armonia e la qualità della relazione, quasi sempre la separazione, dopo un certo tempo, si trasforma in divorzio, se uno dei due lo chiede. In questo caso si invita a fare distinzione – per quanto possibile! – tra chi ha voluto il divorzio avendolo colpevolmente provocato e chi invece lo ha subito oppure vi ha fatto ricorso costretto da gravi motivi connessi con il bene proprio o dei figli. In ogni caso il credente è consapevole che il divorzio non rompe il vincolo coniugale ma equivale soltanto ad una separazione: cercherà pertanto di non chiudere mai definitivamente, per quanto lo riguarda, la possibilità di una riconciliazione.

– “Nei confronti di chi ha subìto il divorzio, l’ha accettato o vi ha fatto ricorso costretto da gravi motivi, ma non si lascia coinvolgere in una nuova unione e si impegna nell’adempimento dei propri doveri familiari… la comunità cristiana esprima piena stima… viva uno stile di concreta solidarietà, attraverso una vicinanza e un sostegno, se necessario, anche di tipo economico, specialmente in presenza di figli piccoli o comunque minorenni”. Per quanto riguarda l’ammissione ai sacramenti, vale per chi ha subito il divorzio quanto detto sopra per i separati, tenendo presente che vi sono anche dei divorziati che continuano a testimoniare la fedeltà in modo eroico!

– “Con attenzione e con autentica discrezione, i fratelli nella fede e l’intera comunità cristiana offrano il loro aiuto a chi, essendo moralmente responsabile del divorzio, l’ha chiesto e ottenuto, ma non si è risposato. Perché possa accedere ai sacramenti, il coniuge che è moralmente responsabile del divorzio ma non si è risposato deve pentirsi sinceramente e riparare concretamente il male compiuto” anche se si trova nell’impossibilità di riprendere la vita coniugale; in ogni caso per poter accedere ai sacramenti sarà necessario un percorso di discernimento con un  sacerdote.

Divorziati risposati

Alcuni dopo la fine del primo matrimonio e dopo aver ottenuto il divorzio, passano a nuove nozze. Molte persone che si trovano in questa condizione, non la ritengono in contrasto con il Vangelo perché – con un ragionamento di “buon senso” umano che non va molto per il sottile – affermano che, dopo la sofferenza che ha accompagnato la fine di un matrimonio, nessuno può impedire di rifarsi una nuova vita affettiva; suppongono che Dio stesso, buono e misericordioso, che perdona ogni genere di peccati, anche i più gravi, possa essere d’accordo. Altre persone, “pur sapendo di essere in contrasto con il Vangelo, continuano a loro modo la vita cristiana, a volte manifestando il desiderio di una maggior partecipazione alla vita della Chiesa e ai suoi mezzi di grazia”.

La Chiesa afferma chiaramente che “la loro condizione di vita è in contrasto con il Vangelo” (e questo vale anche per chi convive con un separato o divorziato, cfr. Lc 16,18), ma esorta a un vero discernimento personale e pastorale. Prima di esprimersi a proposito della ammissibilità ai sacramenti occorre ridire che ogni comunità cristiana eviti qualsiasi forma di disinteresse o di abbandono e non riduca la sua azione pastorale verso i divorziati risposati alla sola questione della loro ammissione o meno ai sacramenti… i divorziati risposati sono e rimangono cristiani e membri del popolo di Dio e come tali non sono del tutto esclusi dalla comunione con la Chiesa, anche se non sono nella pienezza della stessa comunione ecclesiale… si mettano in atto forme di attenzione e di vicinanza pastorale. Ogni comunità ecclesiale, di conseguenza, li consideri ancora come suoi figli e li tratti con amore di madre; preghi per loro, li incoraggi e li sostenga nella fede e nella speranza… ci si astenga dal giudicare l’intimo delle coscienze, dove solo Dio vede e giudica”.

“I presbìteri e l’intera comunità aiutino questi fratelli e queste sorelle a non sentirsi separati dalla Chiesa; li invitino e li sollecitino, anzi, a prendere parte attiva alla sua vita. Li esortino ad ascoltare la parola di Dio… a prendere parte agli incontri di catechesi… Li aiutino a perseverare nella preghiera, certi di potervi trovare gli aiuti spirituali necessari per la loro situazione di vita; specialmente ricordino loro di partecipare fedelmente alla Messa… Li spronino ad un’esistenza morale ispirata alla carità… un aiuto particolare venga loro offerto perché possano vivere pienamente il loro compito educativo nei confronti dei figli”.

Se un divorziato/a dovesse rivolgersi a un sacerdote o a un laico per valutare dal punto di vista evangelico la scelta che ha in animo di fare di un nuovo matrimonio, dovrebbe essere chiaramente espressa la posizione della Chiesa in coerenza con il Vangelo che domanda ad un cristiano di essere segno della fedeltà di Dio che va ben oltre i nostri fallimenti umani. Di fronte alla decisione di passare a nuove nozze, non si potrà nemmeno nascondere la sofferenza nel vedere un fratello o una sorella che con questo passo viene meno a un impegno solenne preso davanti a Dio e davanti al coniuge e alla comunità; ma nello stesso tempo si potrà esprimere affetto e comprensione, fiducia e misericordia per ognuno. Si potrà anche dire chiaramente che la loro posizione non li pone al di fuori della Chiesa, anche se impedirà di vivere la piena partecipazione ai sacramenti della Riconciliazione e della Comunione Eucaristica. 

Papa Francesco ha invitato le chiese diocesane ad applicare la sua esortazione Amoris Laetitia in concrete vie di accoglienza. Nella nostra diocesi è stato disposto così:

  1. Alla luce di quanto detto di fronte al caso di divorziati in nuova unione è possibile, e in certi casi, auspicabile, anche una indagine previa per comprendere se il matrimonio precedentemente celebrato fosse nullo, cioè viziato da una mancanza di libertà o di verità nel consenso, per gravi ragioni che vanno dimostrate in sede giudiziale: non si tratta del “divorzio cattolico”, ma della ricerca della verità, che è la prima forma di misericordia.
  2. L’insegnamento di san Giovanni Paolo II, nella Esortazione “Familiaris consortio” del 1981, indicava l’eventualità, per una coppia in questa situazione di nuova convivenza di tipo coniugale, di continuare la convivenza coniugale quando “seri motivi” (ad esempio la presenza di figli nati dalla nuova unione) fossero in contrasto con l’obbligo morale della separazione. Veniva, in questi casi, concessa eventualmente la possibilità di accostarsi alla comunione eucaristica, dopo la confessione sacramentale, ponendo due condizioni: l’astensione dai rapporti coniugali e la prudenza di accostarsi all’Eucaristia senza generare scandalo nella comunità.
  3. La via del “discernimento personale e pastorale” perché i fedeli in nuova unione facciano una verifica seria sulla propria condizione, confrontandosi su quattro atteggiamenti, accompagnati da un “pastore” della Chiesa. Anzitutto la verifica della propria vita cristiana, fondata sulla “via dell’amore” che Gesù propone a tutti i credenti: questo “esame di coscienza” è lo stesso che ogni fedele (anche chi è sposato secondo la dottrina) deve compiere per essere veramente discepolo del Signore: prego? partecipo alla comunità? vivo la carità? mi formo?! È poi necessario un atteggiamento di umiltà e consapevolezza della propria condizione di contraddizione, accompagnato dal pentimento sincero per la fine del precedente matrimonio (con la verifica anche delle responsabilità e dei doveri che da esso derivano, nei confronti del coniuge e di eventuali figli). Infine, il punto più delicato, la verifica della irreversibilità morale (oltre che pratica, ad esempio per la presenza di figli nati dalla nuova unione o accolti dalla precedente) del nuovo legame di tipo coniugale, magari già ratificato anche attraverso il matrimonio civile.
  4. E’ possibile  per chi compie il “discernimento” sopra illustrato, di ricevere un “aiuto” da parte della Chiesa per vivere nel modo migliore la propria nuova condizione di tipo coniugale, anche con i Sacramenti della confessione e dell’Eucaristia. Non si tratta, si noti bene, di un “permesso” benevolmente concesso a tutti o a qualcuno – né tanto meno della benedizione di un nuovo matrimonio – ma della proposta di un “percorso” impegnativo e dinamico, sempre attento alla concreta condizione della singola persone e al bene che “qui e ora” essa può e deve compiere. Concretamente ciò significa anche che non necessariamente il cammino di discernimento abbia come unico esito la riammissione ai sacramenti. La scelta di questa linea si spiega, dal punto di vista morale, con una solida riflessione dottrinale che papa Francesco ripropone. Nell’agire morale è infatti necessario distinguere tra il “disordine oggettivo” di una concreta situazione (in questo caso una unione matrimoniale non sacramentale) e la “colpevolezza” della persona coinvolta che, a causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, può non essere in stato di peccato mortale.
    Ci si rende conto che non basta il breve incontro in confessionale per approfondire. Anche se è sempre possibile per tutti condividere il punto del proprio cammino,  esprimere la propria situazione, con la possibilità di una benedizione, anche se non l’assoluzione sacramentale.
  5. Considerando quanto indicato in Amoris Laetitia, il vescovo Oscar conclude il n. 20 della Nota affermando: “Chi dunque, nella nostra Diocesi, si incammina con impegno e umiltà nel percorso indicato, lasciandosi “plasmare” dalla grazia del Signore, giungendo attraverso il discernimento personale e pastorale a riconoscere di avere maturato le condizioni segnalate, può essere riammesso, dopo l’assoluzione sacramentale, alla mensa eucaristica nella propria comunità.” 
  6. Molto importante il coinvolgimento della comunità cristiana di appartenenza, chiamata a comprendere e accompagnare i singoli e le coppie che volessero intraprendere il discernimento, fino alla possibile riammissione alla celebrazione dei Sacramenti. Non vengono indicati tempi e modalità troppo stringenti, perché i percorsi andranno costruiti e sperimentati insieme dai pastori della Chiesa e da persone competenti che li affianchino. Per favorire comunque una omogeneità di interpretazione e di azione pastorale, il Vescovo ha costituito un “Servizio diocesano” per le situazioni di fragilità familiare che, in coordinamento con l’Ufficio per la pastorale della Famiglia, possa favorire la formazione degli operatori, rispondere a eventuali dubbi e offrire consulenza ai fedeli che volessero chiarire la propria posizione.

Anche per questo la parrocchia di Bormio propone ai genitori e ai ragazzi di pensare ai padrini di Cresima con largo anticipo (2 anni) in modo da eventualmente vivere un percorso con i candidati. In alcuni casi, da verificare, lo si può essere anche se non si accede ancora ai sacramenti. 

Per chiunque voglia approfondire il proprio cammino, in qualsiasi condizione si trovi, può rivolgersi a don Fabio. Anche altri parroci dell’Alta Valle sono disponibili: don Mauro in Valdidentro, don Gianluca a Livigno.